Entro il 1° gennaio 2007, gli Stati europei dovranno adottare le misure normative necessarie per conformarsi alla MIFID, la direttiva sui mercati degli strumenti finanziari, e dal 1° novembre dello stesso anno tali misure dovranno avere concreta applicazione all’interno di ciascun Paese.
Il dibattito tra gli addetti ai lavori e i resoconti sulla stampa hanno finora dato rilievo soprattutto agli effetti derivanti dall’abolizione dell’obbligo di concentrazione degli ordini in Borsa.
La MIFID, in realtà, comporterà una profonda trasformazione non solo della struttura dei mercati come li conosciamo oggi in Italia, ma anche dei rapporti tra le varie tipologie di intermediari e delle relazioni tra intermediari e clienti. L’intero Testo Unico della Finanza (TUF), tuttora in fase di ulteriore aggiornamento per effetto della recente iniziativa del Governo, sarà profondamente trasformato.
Tra le tante imminenti novità, c’è l’introduzione (o, meglio, la re-introduzione) nell’ambito dei servizi di investimento della “consulenza in materia di investimenti” (investment advice), definita come “prestazione di raccomandazioni personalizzate ad un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa dell’impresa di investimento, riguardo ad una o più operazioni relative a strumenti finanziari”.
In realtà si tratta di una novità relativa, perché già nella Legge sull’intermediazione mobiliare del 1991, tale forma di consulenza era compresa tra le “attività di intermediazione mobiliare”.
Così come intesa dalla Legge, essa non aveva avuto alcuna diffusione tra il pubblico: probabilmente allora era troppo ristretto l’ambito nel quale essa poteva manifestarsi, il conflitto di interesse non era un tema sentito come oggi e la clientela non era disponibile a pagare un “parcella”, che si andasse a sommare alle commissioni già incluse negli altri servizi di investimento.
Oggi il conflitto di interessi è diventato un argomento cui anche il piccolo risparmiatore è diventato più sensibile; la più ampia gamma di strumenti disponibile e le accresciute esigenze di asset allocation dinamica hanno reso accettabile, per un cliente con patrimonio significativo, pagare un costo supplementare rispetto alle sole commissioni di negoziazione e gestione.
Per gli intermediari finanziari la disponibilità di un investitore privato a pagare questa fee rappresenta una nuova area di business. E forse, dalla clientela private, esso si potrebbe estendere anche alla clientela retail.
La cosa non appare così semplice, almeno alla luce di un precedente di questi ultimi anni.
Nel corso degli anni 90 si sviluppò, tra gli operatori di mercato, un ampio dibattito sul ruolo che una rete di promotori finanziari con contratto di agenzia poteva avere nell’ambito di una banca commerciale o di un gruppo bancario.
Sono poche le banche retail che hanno avuto successo in questo comparto, e le grandi reti di promotori sono quelle che, sia pure facenti parti di grandi gruppi bancari e assicurativi, non prevedono integrazioni con la rete delle filiali delle banche commerciali.
E’ sicuramente presente il rischio che anche per l’investment advice si manifesti una qualche forma di “incompatibilità”.
Tale considerazione prende le mosse dalle modalità con cui essa si manifesta oggi:
- attività svolta da liberi professionisti o società di piccole dimensioni, come servizio strumentale/attività accessoria (ai sensi dell’art. 1, comma 6 del TUF) e perciò senza necessità di un’autorizzazione allo svolgimento;
- attività accessoria a quella di offerta di servizi fuori sede dei promotori finanziari facenti parte di alcune, per ora poche, reti di distribuzione;
- meno rilevanti appaiono le esperienze delle banche commerciali.
Soprattutto nel primo caso, il focus del “consulente” è sull’assenza del conflitto di interesse.
In questo contesto, come si potrebbe inserire una banca retail?
Intanto, prevedendo un contratto di consulenza come attività distinta dalle altre tradizionali (negoziazione, ricezione/trasmissione di ordini, collocamento e gestione di portafogli), che si “limita” a svolgere quelle attività previste dalla definizione della MIFID e prevede una remunerazione, sulla base di una componente fissa, di una variabile in funzione del capitale cui si riferisce ed una legata alle performance conseguite. Il cliente, una volta ottenuta la consulenza, può, almeno in teoria, attuarla presso uno o più altri intermediari. Nell’imminente quadro che disegnerà al MIFID, a ben vedere, il servizio di “esecuzione di ordini” (più efficacemente rappresentato dall’equivalente espressione di execution only) potrebbe essere l’ideale complemento che la banca “consulente” potrà offrire al cliente.
Tale attività è definita come “conclusione di accordi di acquisto o di vendita di uno o più strumenti finanziari per conto dei clienti”. E’ quindi pensabile che i livelli commissionali siano inferiori a quelli dei servizi di negoziazione e a quelli di ricezione/trasmissione ordini.
Se questa dovesse essere la configurazione prescelta, per realizzare una strategia adeguata, le banche dovranno prevedere interventi che rispondano, quanto meno, alle seguenti esigenze:
- una efficace value proposition, in grado di fare percepire alla clientela le differenze tra la consulenza, come definita dalla MIFID, e l’informativa su mercati e strumenti finanziari tipica dell’attuale attività di sportello;
- una chiara e trasparente gestione dei conflitti di interesse, tema cui sia la MIFID sia i recenti aggiornamenti del TUF dedicano particolare attenzione;
- adeguati strumenti per valutare l’adeguatezza delle operazioni “raccomandate”; il concetto di “adeguatezza” (suitability), previsto dalla MIFID per il servizio di consulenza e per quello di gestione del portafoglio, è molto più rigoroso non solo di quello di “appropriatezza” (appropriateness), previsto per gli altri servizi di investimento, ma anche di quello di “adeguatezza”, attualmente previsto dall’art. 21 del TUF.
Con riferimento a quest’ultimo punto, l’intermediario dovrà ottenere dal cliente dati molto più dettagliati rispetto a quelli gestiti oggi, sia sulla situazione finanziaria sia sugli obiettivi di investimento. E tenerli costantemente aggiornati.
Si tratta di una sfida importante non solo per i sistemi informativi di supporto alla relazione con il cliente, ma soprattutto per gli adeguamenti organizzativi e le politiche di selezione e sviluppo delle risorse umane.
Ma la novità potrebbe anche consentire, agli intermediari più capaci di differenziare la loro offerta, di acquisire un vantaggio competitivo, con ricavi fortemente legati alla qualità del servizio erogato.